Il Rubus fruticosus dei Romani, noto come il Rovo Comune, suscitava un notevole interesse per le sue proprietà astringenti, che comprendevano sia i germogli che le foglie, ma anche il frutto non veniva trascurato per il suo valore nutrizionale. Galeno stesso menzionava che il frutto, composto da numerose piccole drupe tonde e scure, oggi conosciute come More, aveva un sapore piacevole quando maturo, ma risultava piuttosto aspro e “asciugante” quando ancora acerbo, con le stesse proprietà dei germogli non maturi.
In realtà, all’interno dello stesso cespuglio di rovo si potevano trovare frutti in diversi stadi di maturazione e, talvolta, anche varietà di rovi differenti crescevano nella stessa siepe. Ciò rendeva pressoché impossibile identificare con certezza il Rubus fruticosus in modo definitivo. Tuttavia, dal punto di vista alimentare, ciò non costituiva un problema, poiché tutti i frutti di rovo erano commestibili.
Questi frutti erano apprezzati non solo per il loro sapore, ma anche per la loro composizione nutrizionale. Ricchi di zuccheri, pectine, mucillagini e vitamina C, erano ampiamente utilizzati in diversi settori, dall’industria farmaceutica a quella alimentare, inclusi cibi e bevande, fino alla produzione di dolci e liquori.
Le more erano probabilmente i frutti più ricchi di agenti antiossidanti, oltre ad essere una fonte significativa di fibre, vitamine e sali minerali. Nonostante il loro basso contenuto calorico, appena 43 calorie per 100 grammi, rappresentavano una preziosa fonte di energia a basso indice glicemico. Inoltre, grazie al loro elevato contenuto di potassio e all’abbondante presenza di acqua (circa 88%), avevano proprietà idratanti e depurative.